Lo dobbiamo a Cris


Il mio nome è Mattia Bertoldi e sono qui per raccontare la fine di un uomo e della sopravvivenza di altri. Una storia tristemente comune, di questi tempi.

Io e mio fratello eravamo rimasti appostati al Caseificio di Airolo fino all'inizio di marzo. Lui era cuoco al ristorante, io cameriere – ci eravamo spostati qui la notte successiva ai primi casi di infezione, giù in valle. Visto come sono andate le cose, abbiamo fatto bene. Sommersi da formaggi e latte, ci siamo avventurati fuori solo dopo le abbondanti nevicate di quel mese per scalare indisturbati la montagna e raggiungere la caserma della Bedrina, ma c'erano troppi zombie e i fori dei proiettili sulle pareti tradivano l'eventuale presenza di sopravvissuti – se passata o presente, non penso che lo saprò mai. Abbiamo così proseguito la salita fino al Motto Bartola.
Il freddo e il gelo rallentavano gli zombie, così siamo riusciti a conquistare la caserma stanza dopo stanza senza correre troppi pericoli. Aver raggiunto il Mag Mun ci ha facilitato di molto le cose, e devo dire che le istruzioni drill and practice col Fass 90 ai tempi della scuola reclute mi avevano dopotutto instillato una buona mira.

Non ci eravamo mai avventurati fuori da là una seconda volta, non ne avevamo sentito il bisogno: avevamo generatori, benzina, cibo. Per sciogliere l'acqua bastavano i fornelletti a gas. Non aveva senso uscire, almeno fino a oggi pomeriggio. Fino al momento dell'esplosione.

Quando l'abbiamo sentita, abbiamo recuperato delle ganasce militari, due paia di racchette da neve e abbiamo imboccato una via laterale per il tunnel del San Gottardo; una spessa colonna di fumo nero si stava levando verso il cielo.
Li abbiamo trovati là, a una cinquantina di passi dall'entrata della galleria, accartocciati sulla neve.
Cos'è successo? State bene?” abbiamo chiesto, ma nessuno ci ha risposto. Tre di loro erano in lacrime: un uomo vestito da cavaliere medievale, un vecchio barbuto con una carabina a tracolla, una giovane donna con arco e faretra sulla schiena. Tutti piangevano, a parte una. Una ragazza, sui diciott'anni al massimo. Si chiama Veronica.

Li abbiamo convinti ad alzarsi e ci siamo incamminati verso la caserma, ma prima la donna ha costruito una croce con i resti di una cassetta di legno trovata ai bordi dell'entrata del tunnel. L'ha lasciata così, sulla neve.
Mentre tornavamo in caserma mi trovavo in coda al gruppo, insieme alla ragazza. Più o meno a metà strada mi ha preso per mano, fermandosi sulla neve.
Ti devo chiedere un favore” ha detto a voce bassa.
Che cosa?”
Mi ha stretto le dita. “Sai scrivere?”
Mi sono tornati alla mente quei racconti che qualche mese prima ero solito spedire a questo o quel concorso, in Italia e in Svizzera. “Me la cavo, perché?”
Devi raccontare una storia, di quello che è appena successo” e si è tolta lo zaino, estraendone un computer. Mio fratello in quel momento si è voltato, gli ho fatto cenno di andare avanti. Il sole era alto e la montagna sgombra: non c'era pericolo d'attacchi.
Di chi è?”
Dell'uomo che è morto là dentro” e ha indicato il tunnel, oltre la cortina di fumo. “Dell'uomo che ci ha salvato tutti”.

Loro cinque, mi ha raccontato, erano arrivati nei pressi della galleria in tarda mattinata. Non volevano attraversarlo quel giorno, ma valutarne la fattibilità prima di trovare un rifugio. L'imbocco era coperto da una coltre di neve ormai ghiacciata alta tre metri circa e all'inizio avevano tentato di scolpire degli scalini, ma poi hanno pensato di calarsi direttamente sull'asfalto, senza predisporre una via di fuga.
Pensavamo che per trovare una via per salire ci sarebbe stato tempo”, mi ha detto.
La luce solare riusciva a rischiarare solo i primi metri della galleria e ai lati delle due corsie c'erano solo automobili incenerite. C'è stato un incendio, avevano pensato, sono bruciati tutti.
Avevano acceso le torce ed erano entrati per una prima valutazione. Ogni trenta metri, lasciavano un bengala a terra. Dei moderni Pollicini persi nella notte.

Dopo un centinaio di metri, avevano trovato un SUV parcheggiato in direzione nord sulla doppia linea centrale. La portiera era aperta, la chiave ancora nel blocchetto d'accensione. Viola, la donna più grande, aveva voluto provare. Il motore si era acceso al primo colpo e i fari allo xeno avevano illuminato più in là di quanto credevano. Centinaia di occhi erano brillati nell'oscurità del tunnel. Un secondo dopo, correvano a perdifiato verso l'uscita.

Più si avvicinavano alla luce e più i grugniti degli zombie si facevano vicini. Più si avvicinavano alla luce e più si rendevano conto che il muro di neve li avrebbe portati a impantanarsi, a scivolare, mentre quelli non si sarebbero fermati fino al momento di affondare i denti nella loro carne.
Lo aveva capito anche Cristiano, che all'altezza dell'ultima bengala si era inginocchiato e aveva depositato il sacco a terra, a mezzo metro dalla fiamma. Veronica l'aveva visto per prima ed era accorsa per strattonarlo per la manica. Lui aveva estratto una borsa di stoffa dallo zaino e gliel'aveva consegnato.
Vai, e non fermarti” le aveva detto.

Gli altri si erano accorti che Cris si era fermato solo quando hanno visto Veronica camminare verso loro, in lacrime. Sono tornati tutti indietro di corsa e hanno puntato le torce nell'oscurità: Cris era piegato sul muso di un'automobile schiantatasi sulla parete di destra, stava modellando una specie di plastilina marroncina sul cofano.
Cris, muoviti!” gli aveva urlato la donna.
“Attento!” gli aveva gridato l'uomo col fucile e uno zombie gli si era fatto sotto, ma lui era stato più veloce e gli aveva ficcato in bocca un po' di plastilina, seguita da una coltellata dritta nella tempia. Poi si è voltato, scuotendo la testa. Al centro del petto aveva una carica di plastico grande come una scatola da scarpe. Sopra la spalla destra, un filo collegato alla carica appena piazzata.
Scappate, qui sta per saltare tutto” e si è girato per colpire con un calcio alla pancia un altro zombie e affondargli la lama nella nuca.
Il resto dei morti viventi era a meno di dieci metri.
Quindici secondi!” aveva urlato Cris prima di colpire con un pugno un altro morto vivente. “FUORI DI QUI!” e aveva corso incontro all'oscurità, incontro a decine, forse centinaia di fauci.
A Viola e gli altri non era rimasto che correre fuori dal tunnel, scavarsi con le unghie una nicchia ai bordi dell'imboccatura e attendere prima l'esplosione, poi il crollo.
Il tunnel del San Gottardo era andato.

Ora siamo qui, davanti a un piatto di tortelli in scatola dell'Esercito, ma nessuno ha voglia di parlare più. Io e mio fratello abbiamo saputo di Zurigo, di una possibile cura. Improbabile che dopo tre mesi tutte quelle teste d'uovo siano ancora lì, in salvo. Ma la speranza è l'ultima a morire – si dice così, no? E di questi tempi, potrebbe essere morta e tornata in vita; è già qualcosa, no?

Dovremo aspettare, però. Che arrivi la fine della primavera, che la neve si sciolga un po' di più. Potremo tentare la via dei bunker e dei cunicoli scavati nel Gottardo, ma visto quello che si nascondeva nel cuore del tunnel non mi arrischierei mai a entrare là dentro, e per di più al buio. No, dovremo avere pazienza. Ricordo che un tempo l'apertura del Passo del San Gottardo avveniva a maggio, ma a quei tempi c'erano gli spazzaneve a liberare la via. Noi abbiamo solo tempo. Tortelli in scatola e tempo.

Non so per quanto attenderemo e non so se ce la faremo ad arrivare vivi sino a lì. Ma dobbiamo provare.
Lo dobbiamo a noi.
Lo dobbiamo a quelli che non ci sono più, che hanno scritto via e-mail e su questo blog permettendo al gruppo di arrivare sino a qui.

Lo dobbiamo a Cris.

PS: a tutti i sopravvissuti, se ci siete... mattia.bertoldi@yahoo.it. Scrivetemi, e fateci sapere dove siete rifugiati. E che Dio vi benedica.

Giorno #97: Addio al Ticino.

Ho appena spedito una e-mail a tutta la mia rubrica. Eccola.

Il mio nome è Cristiano Camporosso, ho 33 anni e so che nessuno leggerà o risponderà a questa e-mail.
Eppure eccomi qui.
Vi scrivo perché ho camminato tanto in questi giorni, e ho avuto tempo e modo di pensare. Pensieri che non sempre ho scritto sul mio blog, pensieri che voglio condividere.
Negli ultimi novanta giorni ho attraversato il Ticino da sud a nord, da Pedrinate ad Airolo condividendo cibo, acqua e chilometri con più compagni di viaggio. Ho schivato la morte ogni giorno, sfuggendo ai morsi degli zombie che oggi affollano il cantone, tutto. Pensavo non ci fosse più niente per me, in questo posto. Non una moglie, non un lavoro, non un futuro.
Eppure.
Eppure mi guardo indietro e rabbrividisco al pensiero che gli ultimi reduci possiamo essere io, Viola, Martino, Bruno e sua figlia Veronica. Cinque in tutto. Che il cantone è perduto, e che l'illusione di una cura per questo virus a Zurigo possa tramutarsi in una crudele bufala.
Ho paura.
Sto per portare a termine questo viaggio lungo mesi e ho paura solo ora, a un passo dal traguardo.
Perché se entro in quel tunnel, se supero il San Gottardo, ho la quasi certezza che in Ticino non ci tornerò più, e perderò l'unica briciola di normalità che c'era ancora in questo mondo.
Casa mia.
Oltrepassando quella galleria, sarò in un luogo a me sconosciuto, in lotta con gli zombie, da Göschenen fino a Zurigo. Sarà quella la mia vita, combattuta in un luogo lontano da dove sono nato e cresciuto.
Non sono sicuro di volerlo, ma so che devo farlo. I muscoli delle gambe strillano, la fronte gocciola sudore freddo e caldo a ogni ora. Ma oggi, oggi è il cuore a spasimare più di tutti.
Addio, Ticino. Spero di tornare con una cura.


Cris

Giorno #95: A Portata di Mano.

Oggi abbiamo raggiunto Nante e ci siamo sistemati in uno chalet di legno, abbandonato, per la notte. Ce ne sono diversi, giù in valle. Bisognerà fare attenzione.
E comunque siamo qui, a meno di due chilometri dalla nostra via di salvezza per il nord della Svizzera. La cura è là, basta allungare il braccio, tendere le dita. A portata di mano.

Siamo qui, e ancora non ci credo. Stiamo per lasciare il canton Ticino.

Giorno #94: Passo del Sassello.

Superato in giornata il Passo del Sassello, abbiamo trovato riparo al Rifugio Garzonera di Quinto. C'erano tre zombie al suo interno, due vestiti con k-way e pantaloni Think Pink, uno con camicia di lana ruvida, bretelle e scarponi da montagna. Escursionisti e gestore. Viola li ha trapassati con le sue frecce nel giro di dieci secondi.
Riposo, ora.

Giorno #93: Liberando il Baborca.

Ieri abbiamo camminato da Foroglio a San Carlo e su fino al rifugio Poncione di Braga, oltre 2000 metri sopra il livello del mare; oggi siamo invece scesi di quota e abbiamo raggiunto Valle di Peccia nel primo pomeriggio. Abbiamo impiegato un bel po' di tempo a liberare il Baborca dalla neve, pare che ci sia stata una valanga, ma dopo un paio d'ore passate a scavare ce l'abbiamo fatta. Muoversi nel buio totale con solo una torcia e uno Zippo a rischiarare l'oscurità... Brr, non lo rifarei. Comunque l'abbiamo percorso e raggiunto infine Peccia, dove abbiamo trovato riparo in una casa affacciata sulla Maggia.
Inutile dire che siamo tutti stravolti dalla giornata, ma è una stanchezza positiva, dovuto a sforzi che ci avvicinano all'obiettivo, e non al timore di essere uccisi a ogni passo. Solo sul limitare del paese, dopo quattro giorni di vuoto totale, abbiamo visto degli zombie – pare proprio che il freddo e il gelo li immobilizzino, si vede che i muscoli e le giunture si intorpidiscono, o qualcosa del genere. In più, la neve impedisce loro di muoversi rapidamente come in città e oggi ne abbiamo persino visto uno immobilizzato dal busto in giù in un cumulo di neve, che agitava le braccia come un forsennato.
Un bersaglio facile facile.
Non abbiamo tuttavia sprecato pallottole o frecce con loro, perché più ci avviciniamo al San Gottardo e più è chiaro a tutti che dovremo usare ogni più piccola particella di energia per essere sicuri di uscirne fuori vivi e arrivare a Zurigo.

Giorno #91: Sigarette, Mazze e Sorprese.



Siamo arrivati a Foroglio. Abbiamo deciso che, paradossalmente, d'ora in avanti sarà bene avanzare attraverso i passi e scalando le montagne. Ma non per gli zombie, quelli non li vediamo più da diverse ore ormai. Per la neve. Camminare a valle è faticoso, sprofondiamo fino alle spalle e ci bagniamo; poi, nei posti più ombreggiati, veniamo frustati dal vento e rischiamo di morire di freddo. In cima ai monti, invece, c'è più sole e la neve è ghiacciata. Fatichiamo sulle salite, d'accordo, ma perlomeno non dobbiamo creare dei sentieri tra cumuli e cumuli di neve aiutandoci con le braccia e pale di fortuna.

Ieri, dopo aver superato Bosco Gurin, ci siamo addentrati nella val Calnegia e ci siamo sistemati al rifugio della Crosa, nei pressi del laghetto. Erano appena le 15 e visto che il pericolo di attacchi qui, nel mare bianco della montagna, è praticamente scongiurato ci siamo concessi un po' di tempo libero per passeggiare nei dintorni. E io ho trovato anche qualcosa di interessante, poche centinaia di metri a nord ovest: una bocchetta lungo il confine dove qualche spallone ha lasciato della merce, forse in attesa di un corriere.
C'erano tre o quattro pacchi di zucchero, un paio di bottiglie di grappa e due stecche di Marlboro senza tutte quelle scritte sul pericolo di morte e il rischio di impotenza.
Dovranno avere almeno una decina d'anni.
Proprio un peccato che io non fumassi, ma ho comunque raccolto il bottino, perlustrato anche i dintorni e sono tornato al rifugio. Quando ci siamo trovati tutti nel salone davanti al camino acceso, ho fatto lo splendido svuotando il contenuto del sacco sul tavolo. Occhi sgranati, bocche aperte.
Ma dove hai trovato tutta 'sta roba?” mi ha chiesto Bruno.
Be'...” e ho raccontato l'intera storia, tra un bicchierino di grappa e l'altro. “Il sale teniamolo, che potrebbe sempre servirci nei prossimi giorni. Non si sa mai. Riguardo alle sigarette... Qualcuno qui fuma?”
Viola, Bruno e Veronica hanno scosso la testa. Goffredo è rimasto fermo, lo sguardo basso.
Okay.” Ho preso entrambe le stecche in mano e mi sono diretto verso il camino. “Allora tanto vale gettarle nel fuoco per scaldar–.”
FERMO!” ha tuonato Goffredo, alzandosi. Abbiamo smesso tutti di respirare, il tempo si era fermato nel rifugio della Crosa. “Io fumo.”
TU?!” abbiamo detto in coro.
E così, dopo la mia storia, è stato Goffredo a raccontarci la sua tra una boccata e l'altra. E non aveva niente a che fare con re Rabadan e tutte quelle cose viste a Bellinzona. Il suo vero nome è Martino, viene da Foroglio. Lì gestiva un'osteria alpina chiamata La Froda, poi quando è iniziata l'invasione dei morti viventi ha riempito lo zaino di salumi e si è spostato più a sud verso Bignasco, poi Maggia, Locarno, Monte Carasso e Bellinzona, dove ha barattato l'accoglienza al castello con una mazza e tre salami.
Ma in cantina ho ancora qualcosa, se mai dovessimo arrivarci” e tutti avevamo l'acquolina in bocca, visto che quella sera ci sono toccati i piselli in scatola.

Questa mattina, fiuu, dovevate vederci come filavamo sulla neve, tutti con l'immagine di questa fenomenale cantina dell'osteria di Martino. In testa c'era proprio lui, seguito da Bruno e Viola. Io sono rimasto qualche passo indietro un po' per solidarietà verso Veronica, un po' per il peso dello zaino che ora conteneva anche i tre o quattro chili di sale. Quando distavamo una trentina di metri dal gruppo di testa, mi ha poggiato la mano sul braccio e ha portato l'indice e il medio della mano sinistra sulle labbra, con un occhio puntato su di me e uno su suo padre.
Voleva una sigaretta, fumava di nascosto.
Le ho sorriso e annuito.
Bruno!” ho gridato.
Sì, dimmi” ha risposto voltandosi.
Ci fermiamo un attimo, prendo fiato.”
Anche loro si sono bloccati. “Vi aspettiamo?” ha urlato Viola.
Ma no, andate pure. Rimane Veronica a farmi compagnia. Cinque minuti e riprendiamo.”
Va bene” e sono ripartiti.
Ho aspettato che girassero dietro una roccia e ho appoggiato lo zaino a terra. Ho aperto un pacchetto, sfilato una sigaretta e l'ho allungata a Veronica. Poi le ho fatto accendere dal mio Zippo. Lei si è sporta e ha tirato la sua prima, goduta boccata da chissà quanti giorni. Ha tossito un paio di volte, poi ha ripreso e se l'è fumata tutta nel giro di una novantina secondi. Ne ha voluta un'altra, e questa se l'è goduta già di più.
Alla fine ho messo via tutto e mi sono rimesso lo zaino in spalla.
Pronta?” le chiesto facendole l'occhiolino.
Lei è rimasta in silenzio, ma mi ha sorriso e un raggio di sole le ha illuminato il volto. In quel momento ha sbattuto tutte e due gli occhi contemporaneamente, probabilmente per colpa della luce intensa, ma io l'ho preso come un doppio occhiolino. Stavamo facendo amicizia.


Che cosa rimane da raccontare? Alla fine a La Froda ci siamo arrivati, e anche se la cantina era stata depredata Martino aveva due o tre cantucci segreti che hanno garantito vino, mazze e salumi per tutta la serata. E ora scusate, vado a dormire: la testa mi gira un bel po' e domani ci sarà ancora un bel po' da marciare.

Giorno #89: Per non Perdere Noi Stessi.



Giornata senza scossoni. Scesi dal monte Salmone, ci siamo diretti a Maggia e abbiamo seguito il corso del fiume omonimo sul lato ovest. Aurigeno, Moghegno, Lodano... Abbiamo incontrato qualche zombie, ma erano sempre isolati e li abbiamo schivati senza troppe difficoltà. Sull'altro lato invece, soprattutto lungo la cantonale tra Coglio, Giumaglio e Someo, i morti viventi erano ben di più.
Abbiamo pranzato a Boschetto, su un terrazzamento di pietra a pochi metri da una cava. Nei paraggi abbiamo trovato anche un prefabbricato con dentro un paio di zombie vestiti da operai, ancora col caschetto giallo in testa. Viola ha aperto la porta e io e Bruno li abbiamo eliminati nel giro di pochi secondi, lama del coltello all'insù dritta sotto il mento e tutti giù per terra. Negli armadi abbiamo trovato una mezza dozzina di scatolame e due confezioni di toast ormai marcio. Abbiamo incamerato le prime e buttati le seconde. In una sacca c'era pure dell'esplosivo completo di micce, che va a fare il paio con quello consegnatomi da Massi, poco prima di morire.
Abbiamo proseguito lungo la val Rovana, sempre tenendoci distanti dai centri abitati – Linescio e dintorni. A Cerentino il paesaggio ha iniziato a riempirsi di neve e il cammino si è fatto più pericoloso, impedendoci di mantenere la tabella di marcia del mattino. Nel pomeriggio infatti, complice il caldo, il terreno si è fatto scivoloso, bagnato e pesante – pare proprio che sarà impossibile percorrere più di un paio di chilometri ogni ora, nei prossimi giorni.
Ci siamo fermati per la notte in una casa immersa nel bosco, a metà strada tra Cerentino e Bosco Gurin. Considerata la posizione isolata, Bruno ha detto che avremmo potuto rischiare di accendere il camino per scaldarci e per arrostire un po' di carne. Goffredo ha nicchiato, io e Viola ci siamo dati subito da fare facendo a pezzi un comodino per avere della legna asciutta.
È stata una bella serata. Mi mancava, quel senso di sicurezza che ti dà trascorrere del tempo con delle persone di cui ti fidi, forse addirittura degli... amici. A Zurigo troveremo una cura, ne sono certo.
Dobbiamo trovarla, per non perdere momenti come questi.

Per non perdere noi stessi.